In questo mio piccolo studio, di bello, di professionalmente bello, non c'é nulla: l’olivetti sta sul ripiano di una libreria da cui ho tolto i volumi più grossi; alla mia sinistra l'asse da stiro appoggiata alla finestra; dietro di me incastonato nel muro il letto pieghevole e tutt'intorno gli oggetti che non riesco a buttare via, come il pezzo di carta della mia laurea, la pagina iniziale della bibbia, un palloncino mappamondo e la foto della mia ex. In questo personalissimo ordine ho dato spazio ad un bel libro senza parole: é la storia di un viaggio in Irlanda che i miei genitori si sono regalati dieci anni fa. Sento voci far festa, direbbe un poeta: ebbene sì, dall’eterogeneità delle immagini di questo piccolo album esce un concerto di suoni a cui io, omaggiato dal fato di un biglietto in prima fila, proverò a mettervi le parole.
Cammino e la terra non si scompone, é dura, i sassi sembrano aver trovato il loro posto nella vita, ogni piccolo frammento sostiene il mio passo, si sposta di poco, così poco che non mi spinge da nessuna parte. Sto qui davanti ad una casa di pietra, una casa di Dio, col rosone, una croce ed una torre campanaria che la mia fantasia cerca senza trovare. I tetti sono spioventi e la pioggia li colpisce senza fare alcun rumore. Alcune sedie sul prato, un paio di file ordinate ma sghembe, mi fanno pensare a un concerto concentrico, immagino un arpa con tutt’intorno una platea silenziosa. Mia madre, incurante di questi miei pensieri, cavalca spalle alla chiesa un basso muretto di pietra guardando dritta verso la macchina fotografica di suo marito. Il giallo evidente che si porta addosso non stona affatto con i colori dell'edificio, sta come il pistillo su di un fiore appassito, mentre io, volto all’insù, mi bevo questo cielo grigio, una soluzione omeopatica di infinitesime gocce di blu cobalto. Non riesco a capire che ora sia, le ombre si sono dissolte finemente tra una pietra e l'altra e in questa immobilità temporale è il sorriso accennato di mia mamma ha parlare, un’istantanea che ritroverò su ogni sua foto. Sfoglio l'album. Mi sembra di essere sulle scogliere di Moher e oltre, lì dove più lontano scruta l’obiettivo di mio padre, sento tutto il suo sforzo per cacciarmi in ogni possibile anfratto, tra uno scoglio che si alza dal mare ed un altro che se ne discende mi spinge ad esplorare anche dove umanamente non avrei alcuna possibilità di sopravvivenza. Saltello tra le pagine alla ricerca di quella fonte di felicità che papà e mamma mi hanno portato a casa. La incontro davanti al Ciaran’s Bar e la ritrovo al Fitzpatrick’s Shop mentre cercano di ricomporre una vecchia locomotiva, che arreda, con i suo colorati pezzi la facciata di una casa irlandese. Neanche il tempo di contare fino a dieci che una fata mi alza e mi riappoggia delicatamente su di un carrozzone trainato da un cavallo a capo chino e con passo elegante. Lascio fare e mi ritrovo al Laurels Bar con un complesso che suona la più bella delle melodie; ma io, a cui il tempo ha regalato un caleidoscopio di ricordi, me ne sono già andato, tra gli spruzzi delle scogliere di Moher, a bere birra appoggiando serenamente il mio gomito, ad entrare ed uscire da decine di coloratissime porte, ad un concerto-centrico di arpa celtica, a rigirar la ruota anteriore sinistra d’acciaio di un vecchio mezzo di trasporto, a nuotare con le onde che mi sommergono, a dormire in una botte ambulante, a riposare tranquillo tra pareti di fucsie.
Il libretto è completo, ma sento che ci sono emozioni che non si dovrebbero scrivere, la fila di parole che bussa alla porta qualche volta va fatta aspettare. Ho cercato di immaginare la banalità dei luoghi e forse nella mia mente ci sono anche riuscito, ho creato nel cervello la sensazione dell'esserci già stato, perfino il mio palato profuma della miglior birra. Eppure. Non riesco a sondare il nero delle foto che non ci sono e per cui c'é un abbondante spazio alla fine dell'album: più guardo e più mi ci perdo. L'Irlanda che mi manca è quella che non ho visto, un pezzo di terra osservata con gli occhi di persone che amo, ma che la mia mano, che tanto li ha abbracciati, non ha ancora accarezzato.
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