08 marzo 2010

Valeriano

Una giornata senza punti oscuri, come del resto lo è questo sport, in cui tutto vive alla luce del sole, la mappa dettagliata con cura, le lanterne ben segnalate, l'abbigliamento specificatamente tecnico. Una sola ombra e ti ritrovi con la merda al collo, non metaforicamente parlando.

Mi riscaldo, l'escursione termica oggi è precisa, in una via secondaria, nel mio su e giù un cane mi insegue senza abbaiare, senza poter raggiungere le mie coccole, lungo il recinto due tre quattro volte poi torno indietro.
Alla partenza manca molto e non so come passare il tempo, sono solo, comincio a fare calcoli: un doppio passo quasi un metro, il nord è dietro quella collina, perché il taping lo faccio sempre meglio da un lato non lo so, devo bere prima della gara, il campanile mostra l’ora corretta, ritorno alla partenza. La gente ora si accumula, è indaffarata a dare un senso all’attesa, noi del Gaja facciamo stretching, ma anche parliamo, scherziamo, andiamo in bagno, mangiamo, insomma nel nostro siamo completi.

Avvolgendo un po’ il nastro, saltando qualche preliminare di rito, sono già alla ricerca della prima lanterna. La vegetazione lascia andare la corsa come il vento si fa strada tra gli alberi. Una due tre quattro cinque sei, non riesco a perdermi, ma ahimè ho parlato troppo presto. Alla settima lanterna sbaglio strada e mi convinco di ritirarmi. Non mi resta che fare un'ultima cosa: decidere la scusa ufficiale, oscillo tra la bussola che funziona male e la bussola rotta. Insomma è colpa sempre degli altri. Passano i minuti, tanti troppi, ma... "non tutti". Ho ancora tempo, riesco a ritrovare la strada, purtroppo lontanissima da dove pensavo di essere. Rivado col pensiero all’ultima gara del CIOC, a quella lanterna quasi fuori cartina che ha fatto tornare indietro chi se l’era persa. Allora capisco che devo onorare questo sport, che il tempo non è quello che passa, ma un concentrato fatto di sole, di vento, di profumi di alberi, di acqua che scorre. E riprendo dal punto in cui la mia bussola stava per rompersi. Settima, ottava, nona, decima, undicesima, dodicesima, tredicesima, quattordicesima, quindicesima, sedicesima, diciassettesima, diciottesima, diciannovesima.

Bevo un tè caldissimo, mi brucia la faccia, ho la tuta piena di polvere e tra le mani mi scorre un desiderio: vorrei accarezzare qualcuno per fargli sentire che la mia vita è soprattutto questa, di rughe di terra, di fango e sudore, che l’acqua non lava il ricordo.

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